Come crescere bambini che hanno fiducia in se stessi
Pubblicato il 16 Luglio 2020 da Mamma Felice
Non è facile essere genitori, perché spesso non è stato facile essere figli. Il passaggio da figlio a genitore è molto complesso e spesso noi siamo impreparati per due motivi: perché non abbiamo ricevuto un’adeguata educazione emotiva e perché non abbiamo studiato pedagogia o fatto percorsi psicologici per comprenderci nel profondo.
Oggi, con una breve carrellata di idee pratiche e spunti per invertire la rotta della pedagogia nera, vi racconto la mia esperienza personale e pedagogica riguardo l’autostima dei bambini e la fiducia che ripongono in loro stessi.
All’interno del post vi parlo anche del passeggino Joie Versatrax, che secondo me è un buon compromesso tra autonomia del bambino, e contenimento ‘emotivo’. Uno dei tanti modi che possiamo utilizzare per crescere figli fiduciosi, che sappiano camminare nel mondo, ma anche rispettare le regole che ci diamo, sia in materia di sicurezza, che di etica.
Indice dell'articolo
Cos’è la fiducia in se stessi?
L’autostima o fiducia in noi stessi è la considerazione che abbiamo di noi, in base: alla nostra capacità di auto osservarci, alla capacità che abbiamo di comprendere noi stessi e al confronto sociale, ovvero i ‘giudizi’ degli altri su di noi.
Insieme dei giudizi valutativi che l’individuo dà di se stesso (Battistelli, 1994)
L’autostima parte dalla famiglia: si sviluppa in un ambiente familiare favorevole, positivo e ‘coraggioso’, in cui il bambino viene aiutato a potenziare le sue autonomie, riesce ad apprezzare se stesso come individuo.
Non possiamo dunque parlare di ‘carattere’ del bambino, pensando che il nostro bimbo sia ‘solamente timido’, o – all’opposto – che sia un bimbo oppositivo perché sta formando il suo carattere. Perché è sicuramente vero che ognuno di noi ha delle sue peculiarità caratteriali, ma è anche vero che all’interno della famiglia si sviluppa la futura felicità del bambino: si sente voluto? si sente amato? si sente accolto? si sente ascoltato? si sente accettato?
Sono domande che dovremmo sempre porci e, più vado avanti, più credo nel valore della pedagogia, nell’educazione e nella psicologia: noi genitori non solo dovremmo studiare la pedagogia, ma anche fare un percorso di consapevolezza da uno psicologo, prima e dopo i figli, per accettare che magari la nostra vita di figli non è stata perfetta e non tutti i nostri bisogni interiori sono stati soddisfatti.
Se riusciamo ad accettare il nostro ‘dolore’ come figli, sarà più facile evitare di proiettarlo sui figli che abbiamo generato, leggendo la loro storia attraverso il nostro vissuto.
Scegliere i giusti NO: le regole servono a rafforzare la fiducia in se stessi
Contrariamente a quanto si possa pensare, non sono le regole a indebolire un bambino, ma il contrario: l’assenza di regole familiari rende i bambini deboli, frustrati e spesso arrabbiati. Il classico bambino ‘tiranno’ è colui che non viene ‘contenuto’: non ha un limite e i suoi sentimenti esplodono in modo che non sa controllare, con conseguente frustrazione, senso di colpa e inadeguatezza.
Ma anche stigma sociale: i genitori stessi biasimeranno quel bambino, per non parlare dei parenti… e dei passanti, sempre pronti a giudicare i bambini come ‘capricciosi’ e maleducati, ma poco pronti ad accoglierne le emozioni.
Per capire il cosiddetto ‘capriccio’ di un bambino, dobbiamo metterci in empatia con lui: un bambino di pochi anni, continuamente accerchiato da familiari che fanno di tutto per lui, dicendo sì ad ogni sua richiesta. È un bambino che si percepisce piccolo – come è effettivamente – in mezzo a un mondo gigantesco e sconosciuto.
Il suo mondo è troppo ampio, rispetto alla sua capacità di comprenderlo. Ed è lì che perde il suo confine.
Vi faccio un esempio banale: è come se noi togliessimo uno slime dal suo barattolo e lo lasciassimo sul tavolo della cucina. Lo slime si allargherebbe a dismisura, perché non c’è più la sua scatola a contenerlo. E in questo allargarsi, però, non ci sarebbe una forma, né una sostanza, ma soprattutto un confine: potrebbe arrivare fino al bordo del tavolo e precipitare, senza che nessuno possa più fermarlo.
Se dunque le regole sono fondamentali per i bambini, sin da piccolissimi, non è la rigidità lo strumento per fornirle: l’eccessivo uso di regole non necessarie, rigide e ridondanti è l’estremo opposto, che ugualmente va a minare l’autostima del bambino, che non si sentirà mai abbastanza capace.
Dire di sì è molto importante, così quanto dire di no.
Le regole devono essere sensate, chiare, precise e comprensibili dal bambino. E devono essere POCHE, basate su due principi fondamentali: la sua sicurezza e i valori etici che noi vogliamo trasmettere a nostro figlio.
Regole chiare e comprensibili quindi potranno essere:
- In casa nostra non si picchia a non si urla, perché…: gli sto insegnando a comunicare le sue sensazioni a parole, esprimendo il se stesso interiore in modo più profondo, e ovviamente io per primo rispetto questa regola anche con mio figlio e con gli altri membri della famiglia;
- Non ci si sporge dalla finestra o dal balcone, o non si toccano le medicine, perché…: c’è un confine anche fisico tra le mura di casa, sulle cose che il bambino può fare e non fare, prendere o toccare. In questo modo non sarà necessario spostare tutti i soprammobili o tutti i medicinali, se interiorizza la regola che certi oggetti non sono adatti a lui;
- In auto si indossano sempre le cinture, perché…: gli sto dicendo che la sicurezza è fondamentale, che io ci tengo e ho a cuore sia il suo benessere, sia il mio, sia anche il rispetto delle regole civili.
Regole distruttive, invece saranno i NO detti senza senso:
- Non piangere: reprimere le emozioni di un bambino, anche quelle negative, è un danno che gli facciamo per il resto della vita. Questo succede soprattutto ‘ai maschi’, i quali ancora oggi vengono incoraggiati ad essere forti, duri, coraggiosi. Noi invece dovremmo accettare che l’essere umano è composto da differenti emozioni, anche negative, le quali devono emergere per poter essere gestite in modo sano;
- Non fare i capricci: stiamo dicendo al bambino che non abbiamo tempo per lui e le sue richieste, che non siamo in ascolto, che non possiamo accoglierne le istanze. Il capriccio, il pestare i piedi in un negozio, il piangere per un giocattolo… ognuna di queste manifestazioni nasconde in sé una emozione che noi dobbiamo comprendere e contenere. Dobbiamo verbalizzare i suoi sentimenti.
Nel trasmettere le regole, deve essere infine chiaro un concetto fondamentale: che l’amore non è in discussione. Se il bambino viola una regola anche importante, è giusto che lo aiutiamo ad assumersi la responsabilità del suo errore, ma deve sapere che comunque non lo ameremo di meno, e che il rispetto delle regole è una scelta valoriale per se stessa, non un modo per compiacerci o per ricevere in cambio il nostro affetto.
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Se smettiamo di amare i figli per le loro scelte, che non solo possono essere differenti dalle nostre, ma anche sbagliate in senso oggettivo, allora è su di noi che dobbiamo lavorare, non sul comportamento dei figli. L’amore non dovrebbe mai essere messo in discussione.
Coinvolgere i bambini: il senso di sentirsi ‘capaci’
Una cosa che amo molto del Metodo Montessori, è l’importanza che viene data al coinvolgimento dei bambini nelle cosiddette attività di vita pratica. La Montessori riteneva fondamentale, per l’autonomia del bambino, coinvolgerlo nella cura di se stesso e della casa.
Autonomia = autostima, nel senso che più un bambino si sente capace di eseguire delle azioni in modo ‘corretto’, più si sente fiducioso delle sue capacità. E quando dico ‘corretto’ lo dico sensatamente: nel Metodo Montessori, infatti, l’insegnante non dice mai al bambino: ‘Attento! Il bicchiere si può rompere se cade!’, perché non è necessario: l‘errore è contenuto all’interno del materiale.
Quando il bambino fa cadere il bicchiere e lo rompe, capisce da solo come maneggiare il prossimo bicchiere con maggior cura, per evitare di romperlo ancora: impara a compiere gesti via via sempre più precisi e corretti (motricità fine).
Quando noi, dunque, vestiamo, laviamo, imbocchiamo un bambino che sarebbe già capace di curare se stesso, non lo stiamo aiutando, ma lo stiamo costringendo a restare un neonato. Gli stiamo dicendo, implicitamente, che non è bravo abbastanza per prendersi cura di sé.
Spesso nella nostra vita non abbiamo pazienza per i tempi dei bambini.
– Vestiti, che dobbiamo andare a scuola, è tardi!
E non possiamo aspettare che il bambino finisca di vestirsi e lavarsi da solo. Gli puliamo il sederino se fa la cacca, fino alle elementari! Perché ‘se non lo pulisco io, per carità, resta tutto sporco‘. E quando potrà imparare, se noi ci sostituiamo a lui addirittura quando si tratta del suo corpo?
Imbocchiamo i bambini, gli allacciamo le scarpe, gli chiudiamo le zip, gli abbassiamo i pantaloni per fare pipì e gli facciamo il bagno, anche fino a 10 anni. Gli stiamo dicendo non che li amiamo, ma che non sono capaci.
Stimoli giusti ad ogni età: senza anticipare, senza ritardare
Ognuno di noi è convinto di avere un figlio genio, sempre meglio degli altri. Genitori, nonni e zii spessissimo propongono ai bambini dei giochi non adatti all’età, dicendosi: Ahhh, ma mio nipote è molto più avanti degli altri, è più sveglio, più intelligente… Vedessi come sa usare il tablet a due anni!
La differenza sta in questo: un bambino di due anni che è capace ad utilizzare i tasti di un tablet, non è comunque ancora capace di utilizzare il tablet come strumento! Non ha la maturità emotiva e mentale per gestire un tablet, con tutta la marea di informazioni con cui viene in contatto su Internet.
Può sembrare una differenza sottile, ma non lo è!
Tanto per farvi un esempio: un bambino di due anni sarebbe tranquillamente in grado di azionare un trapano e anche cambiargli le punte. Ma con quel trapano, saprebbe bucare il muro per montare una mensola?
Come genitori, noi dovremmo dunque proporre ai bambini – proprio come diceva la Montessori – lo stimolo giusto all’età giusta.
- Se anticipiamo troppo uno stimolo, creiamo frustrazione nel bambino, che non sapendo svolgere quel compito al meglio, si sentirà poco capace e quindi la sua autostima si abbasserà;
- Se posticipiamo troppo l’entrata in contatto con gli stimoli adatti all’età del bambino, ne abbassiamo comunque l’autostima, perché implicitamente gli diciamo che li non è capace, non è ‘abbastanza bravo’.
L’uso del passeggino con i bambini: un’idea perché diventi uno strumento di autostima e di consapevolezza
Anche a livello fisico, gli stimoli dovrebbero essere dati con un certo senso di rispetto per l’età del bambino. Prendiamo l’uso del passeggino.
Capiterà anche a voi di vedere due opposti: bambini molto piccoli che camminano per strada o al supermercato senza dare la manina; bambini molto grandi che stanno ancora seduti sul passeggino.
Come sempre, il nostro ruolo di genitori (che, ribadiamolo, è difficilissimo), dovrebbe essere quello di fare da mediatori o facilitatori, per il bambino.
Dovremmo essere i suoi interpreti: ovvero coloro che gli spiegano il mondo, e che lo raccontano al mondo.
Io non sono contraria al passeggino, anche da grandicelli, perché credo sia importante che le energie del bambino non vengano esaurite: quando un bambino è stanco, il suo senso di frustrazione si ripercuote sul suo comportamento emotivo, e anche su di noi. Ed è inutile a quel punto dirgli: Su, cammina, veloce, stai al passo!
Così come è controproducente trascinarci sempre i figli dietro anche al ristorante o al supermercato, in luoghi affollati, in orari non consoni per loro, sovreccitatati da rumori e luci.
So già cosa state pensando: eh, ma allora non dobbiamo più vivere?
No, per carità, ma non possiamo nemmeno pensare che la nostra vita, con un figlio, sia esattamente uguale a prima. Possiamo certamente continuare a fare tutto, ma con tempi diversi. Magari andremo al ristorante alle sette di sera, invece che alle nove. Magari andremo al cinema di pomeriggio, invece che di sera. Magari faremo feste in casa, anziché nei locali. Giusto per qualche anno, il tempo per aiutare i bambini a gestire le proprie emozioni.
Anche perché arriverà un momento in cui i ragazzi usciranno da soli e saremo noi a stare a casa, e i ruoli si invertiranno.
Quindi, almeno fino ai 3-4 anni del bambino, avere con sé un passeggino super compatto, che si apre e si chiude con una sola mano, può essere un bel vantaggio. Come esempio, come anticipavo ad inizio post, vi posto il passeggino Joie Versatrax, che ritengo utile per mediare tra il desiderio di autonomia e curiosità del bambino, con quello delle coccole e del riposo.
Io amo i passeggini che durano ‘tutta la vita’: Versatrax si usa già dalla nascita e ci permette di programmare una sola spesa familiare, cosa che di questi tempi è veramente fondamentale. È estremamente confortevole perché, nonostante la sua compattezza, ha una seduta piuttosto ampia ed è regolabile sia fronte strada che fronte mamma, ed è dotato di una capottina idrorepellente a copertura completa con protezione UPF 50+ e visiera. Ma soprattutto è reclinabile completamente fino alla posizione nanna.
Da chiuso, è molto compatto: ha persino una cinghia da trasporto incorporata, per portarlo comodamente in giro.
Mi piace perché è un jolly: lo teniamo ripiegato quando il bambino vuole esplorare il mondo, nelle condizioni di sicurezza. Lo apriamo quando il bambino ha bisogno di riposare o di dormire, o troviamo in un posto in cui è necessario stare seduti (per esempio un ristorante).
In combinazione con la navicella Ramble XL e l’ovetto I-Snug, diventa persino un passeggino modulare: un alleato per tutta la vita utile del bambino.
È uno dei tanti modi che abbiamo a disposizione per accompagnare il bambino in questa difficilissima mediazione tra azione e contenimento.
Certe volte vogliamo che i nostri figli non crescano mai, e gli impediamo di scoprire il mondo: abbiamo paura (giustamente!) che si facciano male, o che possa accadergli qualcosa.
Altre volte vorremmo che i nostri figli crescessero troppo in fretta, perché siamo stanchi, in carenza di sonno, con troppe, troppe cose da fare.
In questi momenti è bene inforcare il passeggino, indossare le scarpe da ginnastica e iniziare a camminare: una camminata nel verde di un parco, in riva al mare, sui ciottoli di un fiume, su una collina scoscesa oppure in pieno centro cittadino, sullo splendido porfido intarsiato. Con il passeggino Versatax è possibile, grazie alle ruote pneumatiche riempite di schiuma: possiamo camminare e camminare finché tutta l’aria ci è entrata nei polmoni e nell’anima, e ci siamo rimessi in pace con il mondo.
Smettiamola di sentirci giudicati da chi ci sta intorno: cerchiamo dentro il nostro cuore l’essenzialità dell’amore. Se amiamo i nostri figli e agiamo per il bene, vuol dire che stiamo facendo il nostro meglio.
Praticare la creatività come strumento di acquisizione della fiducia in se stessi
Uno degli elementi fondamentali per la creazione della nostra autostima, è sentirci in grado di realizzare qualcosa con le nostre mani: sentirci capaci di fare qualcosa, raggiungere un obiettivo, mettere in pratica un’idea.
Quindi, quando insisto così tanto sui ‘lavoretti creativi’, lo faccio con questo scopo: non certo per passare il tempo con i figli in modo glitteroso, ma proprio come esercizio di creatività, fiducia e anche relazione genitore-figlio.
Attraverso attività creative e manuali, i bambini si allenano a sviluppare la propria immaginazione, ma anche la propria immagine – ovvero il proprio posto nel mondo. Si sentono bravi. Sufficientemente bravi, e quindi, di conseguenza, degni di essere amati.
Questo è anche il modo di aiutare i figli a trovare ed esercitare le proprie passioni, quindi aiutarli a trovare stimoli creativi durante tutto l’arco della vita.
Quindi, quando iniziamo un lavoretto con i bambini, quello che dobbiamo vedere non è certo il risultato qualitativo, ma l’azione creativa in sé. Non dobbiamo esporre la sua opera in un museo, ma dobbiamo fargli capire che ciò che lui ha realizzato con le sue mani ha un valore per noi, ed è il valore della sua intelligenza, capacità di risolvere i problemi, creatività.
Ricordiamoci infine che la creatività è soprattutto utile al pensiero creativo, in tutti quei casi della vita in cui i nostri figli si troveranno di fronte ad un problema da risolvere e dovranno trovare le soluzioni per risolverlo. Più la loro creatività sarà ampia, e completamente esplorata, migliore sarà la loro cosiddetta capacità di problem solving.
Noi abbiamo fiducia in noi stessi?
Per rendere fiduciosi i nostri figli, ho imparato che prima di tutto dobbiamo lavorare su noi stessi. È una resa dei conti che prima o poi ci si presenta davanti, sia che vogliamo accoglierla, sia che vogliamo ignorarla.
A volte andiamo in burn out: scoppiamo, letteralmente. Ci sentiamo giunti al capolinea, e di questo diamo ‘la colpa’ ai figli, che sono impegnativi e richiedono tanto lavoro. E invece di occuparci di noi stessi e del nostro profondo, ci occupiamo delle cose esterne: facciamo le liste di cose da fare, facciamo mealprepping (presente!), organizziamo le pulizie di casa… e teniamo a bada l’ansia proprio così, cercando di organizzare e incasellare tutto, in modo che il nostro ‘slime interiore’ non esca dal barattolo.
Ci siamo sentiti ‘abbastanza bravi’ come figli?
Io ci sono arrivata a 40 anni. Nonostante io pensassi di possedere grande consapevolezza di me stessa, ma soprattutto di aver elaborato i risultati di un’infanzia infelice e violenta, sono andata in burn out lo stesso.
In quanto genitori, ovvero persone che ‘prestano una cura’, possiamo esserne in qualche misura coinvolti.
La “sindrome del burnout” è un tipo specifico di disagio psicofisico connesso al lavoro che interessa, in varia misura, diversi operatori e professionisti che sono impegnati quotidianamente e ripetutamente in attività che implicano le relazioni interpersonali. Tale problema è stato descritto inizialmente da H. Freudenberger e da C. Maslach che portarono avanti le prime osservazioni sul fenomeno dopo che nel 1970 avevano notato i sintomi caratteristici su alcuni operatori in un reparto di igiene mentale.
Come sottolineano i risultati di alcune osservazioni sull’incidenza del fenomeno su mestieri differenti, “il burnout” colpisce in misura prevalente coloro che svolgono le cosiddette professioni d’aiuto o “helping professions” ma anche coloro che, pur avendo obiettivi lavorativi diversi dall’assistenza, entrano continuamente in contatto con persone che vivono stati di disagio o sofferenza. Il problema è stato riscontrato in modo predominante in coloro che operano in ambiti sociali sociosanitari e sanitari o della salute come medici, psicologi, assistenti sociali, pedagogisti, counselors, esperti di orientamento al lavoro, fisioterapisti, operatori dell’assistenza sociale e sanitaria, infermieri, educatori sanitari e socio-pedagogici, agenti delle forze dell’ordine e operatori del volontariato.
A partire dai primi anni in cui il fenomeno è stato studiato, esso è stato riscontrato anche in tutti quei mestieri legati alla gestione quotidiana dei problemi delle persone in difficoltà, a partire dai poliziotti, carabinieri, vigili del fuoco, fino ai consulenti fiscali, avvocati, nonché in quei tipi di professioni educative (per es. insegnanti) che generano un contatto, spesso con un coinvolgimento emotivo profondo, con i disagi degli utenti con cui lavorano e di cui guidano la crescita personale.
Ne consegue che, se non opportunamente trattati, questi soggetti cominciano a sviluppare un lento processo di “logoramento” o “decadenza” psicofisica dovuta alla mancanza di energie e di capacità per sostenere e scaricare lo stress accumulato (il termine burnout in inglese significa proprio “bruciarsi”). In tali condizioni può anche succedere che queste persone si facciano un carico eccessivo dei problemi delle persone di cui si prendono cura, non riuscendo così più a discernere tra la propria vita e la loro. (Fonte: Wikipedia)
Che educazione abbiamo ricevuto? Purtroppo tanti della mia generazione sono stati ‘educati’ con la cosiddetta pedagogia nera: punizioni corporali, poca empatia, ricatti psicologici. Un modello ‘educativo’ in cui la violenza e le punizioni sono legittime e vengono proprio viste come educative, come insegnamento:
Attraverso una punizione, anche fisica, si otterrebbe il risultato di trasmettere al bambino il messaggio che il rispetto delle regole è necessario e che la trasgressione comporta sanzioni e sofferenze. Secondo questa pedagogia, la punizione è l’unico metodo efficace per trasmettere questo tipo di messaggio senza ingenerare confusioni dovute alla scarsa capacità di comprendere, propria del bambino. (Fonte: Wikipedia)
La psicologa Alice Miller, nel suo saggio intitolato “La Persecuzione del Bambino. Le radici della Violenza.”, così come Winnicott, hanno più volte evidenziato la pericolosità della pedagogia nera, che produce un dolore che non può essere rimosso, e un conseguente trauma psicologico che potrebbe segnare la vita del bambino anche da adulto:
L’impiego consapevole dell’umiliazione, che soddisfa i bisogni degli educatori, distrugge l’autoconsapevolezza del bambino, lo rende insicuro e inibito, e tuttavia viene elogiata come un buon servizio che gli si rende.
Non possiamo sottovalutarlo, né archiviare tutto con la solita frase scritta su Facebook: Uno schiaffo non ha mai fatto male a nessuno! Io le ho sempre prese dai miei genitori e guarda come sono venuto su bene!
Davvero? Quindi, chi di noi è stato educato a botte e punizioni (e non parlo per forza di violenza domestica, ma ‘solo’ di educazione repressiva e punitiva), si sente davvero una persona completamente felice e realizzata? Me lo potete giurare?
Io no. Io ancora oggi sto scoprendo gli effetti della pedagogia nera su di me, di come la violenza abbia condizionato anche la mia vita di adulta (e di madre, e di donna, e di volontaria!), spingendomi ad obbedire a tutti per la paura di ricevere una ‘punizione’, ovvero di sentirmi biasimata, cosa che comporterebbe la perdita dell’amore.
Se io non dico sempre di sì, se io non obbedisco: allora non mi ameranno più.
Ma io non voglio obbedire, mi voglio liberare: allora non solo non sono degna di amore, ma merito il biasimo altrui. Ed ecco il senso di colpa.
Impariamo a distinguere tra responsabilità e sensi di colpa: noi possiamo prenderci la responsabilità delle nostre azioni di genitori, ma non possiamo educare o educarci attraverso la colpa.
Riusciamo ad educare in positivo, non con la paura?
Ogni volta che un bambino ha paura di qualcosa, oppure dei suoi genitori, la sua autostima diminuisce, insieme al suo grado di autonomia.
Se ha paura del buio, cerca di venire nel lettone a dormire.
Se ha paura di socializzare, tende ad isolarsi.
E se ha paura di noi, delle nostre reazioni?
Noi tendiamo sempre a banalizzare la pedagogia nera, tendiamo sempre a dire: Ecchessaramai! Non è mai morto nessuno! Serve a dare le regole, altrimenti i giovani di oggi crescono molli, senza valori!
Eppure la pedagogia nera è insidiosa e molto più BANALE di ciò che pensiamo.
Si manifesta nelle punizioni corporali, non solo attraverso lo schiaffo o la sculacciata (Ma sul pannolino, eh! Mica fa male!, ndr), ma anche in azioni tipo ‘vai a letto senza cena/allora non ti do la cioccolata’, oppure l’umiliazione fisica mettendo il bambino in un angolo, in piedi, per ‘sentire’ la scomodità del suo corpo.
Si manifesta nelle punizioni non corporali: la sgridata, il bambino che viene messo al buio nello sgabuzzino, il bambino che viene messo in ‘isolamento’ fino a nuovo ordine. Oppure quando la punizione si trasferisce sugli oggetti: il bambino viene privato dei giochi o degli oggetti personali o delle relazioni interpersonali (non puoi uscire, non puoi telefonare…). O anche nel punirlo caricandolo di compiti aggiuntivi: il compito di punizione, imponendogli di riordinare la sua stanza buttandogli tutto in terra, ecc…
Vi è mai successo? Vi riconoscete in una di queste situazioni?
E se vi immedesimate in voi stessi da bambini, che cosa provate?
Io provo ancora paura, ma soprattutto provo tanta vergogna: sento ancora perfettamente quell’umiliazione profondissima che si mescola alla mia rabbia, al senso di ingiustizia che provo, che però non viene ascoltato.
Oh, quanto bellissimo lavoro dobbiamo fare su di noi come persone, prima di diventare genitori ‘sufficientemente bravi’!
Però è un bellissimo lavoro e mi sento di dirvi di non rimandare oltre e di iniziare un percorso solo per voi stessi: io lo sto facendo ed è il regalo più bello che mi sia mai fatta, e farlo adesso che sono ‘grande’ e ho già lavorato tanto su me stessa da sola, è ancora più gratificante per leggermi dentro e sentire che posso ancora cambiare.
Come genitori, stoppiamo sin da questo istante ogni forma di violenza verso i figli, anche quella che fino ad oggi vi è sembrata ‘educativa’. Ricordiamoci che i bambini sono… bambini. Che non possono agire come adulti già formati e che stanno imparando. E il processo di apprendimento si svolge sempre per errori.
Ricordiamoci che il processo educativo è un percorso lento!
Ricordiamoci che le regole sono fondamentali: i bambini hanno bisogno di sapere che i comportamenti hanno dei limiti, ma queste regole non possono essere ottenute con la forza, ma solo con l’amore, la compassione, l’accoglienza e la comprensione.
Come si fa? Si fa che per dieci volte il bambino sicuramente contravverrà alla regola, e noi gliela ricorderemo di nuovo, abbracciandolo e dicendogli: NO, non puoi fare questo perché… Capisco che questo NO ti crea rabbia e accetto la tua rabbia, ma questa regola non è in discussione. Ti lascio il tempo di calmarti, ma ti propongo di fare questo insieme, ti va?
Uno studio durato 50 anni che ha coinvolto più di 160.000 bambini, condotto da Elizabeth Gershoff, docente di Sviluppo Umano presso l’Università del Texas, e Andrew Grogan Kaylor, docente di Servizi Sociali presso l’Università del Michigan e pubblicato sul The Journal of Family Psychology ha dimostrato che la pedagogia nera è dannosa per la salute psicologica dei figli.
Anche se all’inizio sembra funzionare, alla lunga un’educazione ‘violenta’ rende i bambini più aggressivi, con maggiori difficoltà a relazionarsi con gli altri, maggiori difficoltà ad esprimersi e persino ad apprendere, con un calo anche nel rendimento scolastico. Ma, soprattutto, genera nei figli una bassa autostima, che si protrae nell’essere umano fino all’età adulta, condizionandone l’esistenza in modo più o meno marcato.
Io sono fermamente convinta che i nostri genitori, e anche chi ancora usa questi metodi educativi, fossero davvero convinti di fare il nostro bene, e di tirarci su ‘come si doveva’. Ma oggi sappiamo che non ha funzionato, e come figli abbiamo il privilegio di esercitare la compassione e il perdono; mentre come genitori abbiamo il dovere di spezzare questa catena, e fare in modo di crescere figli felici e sicuri di sé.
Ci vogliamo provare subito?