Figli fragili e felici: importanza delle emozioni negative nel saggio di Stefano Benzoni
Pubblicato il 19 Dicembre 2018 da Chiara Mainini
Nel saggio Figli Fragili, il neuropsichiatra infantile Stefano Benzoni affronta un tema molto scottante nell’esperienza genitoriale: quanto è davvero bene proteggere i nostri figli dalle avversità della vita? La tristezza, nella crescita di un bambino, che ruolo ha? I nostri figli, oggi, sono davvero così fragili e indifesi come noi li vediamo?
È opinione diffusissima, oggi, che l’errore più comune che i genitori tendono a commettere sia quello di voler ad ogni costo schermare la vita dei propri bambini da ogni possibile situazione di difficoltà.
A differenza di quanto accadeva nel passato, oggi si cerca ossessivamente di riempire la vita dei figli con esperienze divertenti e positive, aspirando per loro conto al raggiungimento di un livello di felicità estremo, quasi epidemico, di evidente rassicurazione per le famiglie così tanto impegnate nella routine quotidiana.
Quello che però si dimentica è che la vita non è mai un crocevia di soddisfazione, gioia e divertimento. Le difficoltà, i dolori, i momenti di tristezza esistono ed assumono un ruolo chiave nello sviluppo evolutivo di un bambino. Un ruolo che non dovrebbe essere paralizzato dai continui tentativi genitoriali di trasformare l’esistenza dei figli in una sorta di luna park infinito.
Questo è il tema che Stefano Benzoni, Neuropsichiatra e Docente di Neuropsichiatria infantile presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, affronta nel saggio Figli Fragili, edito nel 2017 per Laterza.
Di questa presunta, maggiore fragilità che i bambini sembrano manifestare ai nostri giorni il Dottor Benzoni dà una lettura del tutto differente.
Di cosa parliamo esattamente quando parliamo di felicità? In che modo ci aspettiamo che i nostri bambini siano felici e che cosa siamo disposti a fare purché la loro felicità soddisfi le nostre aspettative?
Il maestro di tennis sostiene che il biondino di 11 anni – voti scricchiolanti a scuola ma apparentemente molti follower su instagram e molti amici su facebook – è scarso e non perché, dice, sia mongoloide, ma perché non si impegna, è svogliato e, se si cerca di scuoterlo, quello si ritira ancora di più, rinuncia, si oscura. E riferisce tutto questo al padre del biondino davanti al biondino, dopo avergli lanciato la racchetta contro le reti di protezione nel tentativo di cavarne una reazione. Invece no. Dice: è qualcosa di più del semplice non avere le palle – qualunque cosa voglia dire esattamente non avere le palle – e i genitori lo portino da qualcuno, ma da qualcuno serio, che qui sotto, se non è depressione, poco ci manca.
(cit. cap 3)
Il caso è tratto dall’esperienza clinica di Benzoni ed illustra una dinamica molto diffusa oggi: quella dei genitori che, spontaneamente o perché spinti in tal senso da altri soggetti che vivono a contatto coi propri figli, tendono a medicalizzare immediatamente qualunque disagio riscontrino nei propri bambini.
Questo è un elemento cruciale del problema secondo Benzoni: fino a che punto possiamo e dobbiamo aspettarci che la felicità dei nostri figli soddisfi le nostre aspettative a riguardo? E se ciò non avviene, è davvero sempre un problema di natura psicologica a fondare la presunta tristezza che vediamo in loro?
Non potrebbe semplicemente essere che i nostri figli non siano soddisfatti da ciò che noi riterremmo soddisfacente per loro, senza che questo manifesti necessariamente quel disturbo post-traumatico che oggi è così tanto di moda diagnosticare?
Grossa parte del problema dipende, invero, non dalla tristezza come stato emozionale in sé, che nulla ha di intrinsecamente negativo. Ma dallo standard imposto dalle relazioni sociali attuali, dalla pubblica condivisione di entusiasmi continui ed anomali che illudono le persone di poter essere felici sempre e che creano un’aspettativa di euforia difficile da raggiungere e mantenere costante sul lungo periodo.
In quest’ottica si manifesta la ragione primaria della fragilità che addossiamo ai nostri figli.
Una distorsione visiva che nasce nel momento in cui constatiamo che la loro emotività non corrisponde alle nostre aspettative, quantomeno a quelle che abbiamo costruito sugli standard sociali dettati da ciò che osserviamo ogni giorno.
Il bambino biondo di cui all’esempio citato magari, semplicemente, non amava il tennis e preferiva un altro sport. O probabilmente non era il tipo da esaltarsi per un ace o un servizio perfetti. Ma la visione familiare della felicità, a casa sua, passava attraverso l’essere competitivi, atletici ed eccellenti nello sport. Non rispondere a questi canoni doveva necessariamente implicare un problema psicologico.
Figli fragili è un saggio che parla ai genitori per spiegare che la felicità non è uno standard assoluto nel quale rinchiudere i figli con un’etichetta
Non è qualcosa per cui essere dentro o fuori.
E soprattutto, non è un elemento la cui assenza debba rappresentare necessariamente il sintomo di una patologia psicologica o psichiatrica.
Oggi è molto facile incappare in stigmatizzazioni superficiali dovute alla diagnosi affrettata di un non addetto ai lavori. Si tratta di definizioni che poi tendono a pesare come pietre tombali – quelle sì – sull’emotività di un bambino e che rischiano di gettare nel panico anche quei genitori che ancora non siano caduti nell’inganno di confondere un bambino “non euforico” con un bambino “disturbato”.
Una madre esce dal colloquio con gli insegnanti. Pare che la figlia di otto anni sia irrequieta, incostante, disturbi, faccia continue battute e si distragga. Lei, probabilmente, come decine d’altri in tutta la scuola. Ma per qualche motivo le maestre hanno pensato che proprio per lei potrebbe essere indicato un consulto psicologico. Dicono che potrebbe essere iperattiva, avere quella cosa che si chiama ADHD (Attention deficit and Hiperactivity Disorder, disturbo da deficit di attenzione con iperattività), che va molto adesso.
(cit. cap.1)
Ben lungi dal voler minimizzare il reale disagio dell’ADHD, che affligge molti bambini con conseguenze impegnative a carico del loro sviluppo se non correttamente diagnosticato e trattato, il Dott. Benzoni si domanda in realtà quanto spesso tali “indirizzi” non risultino affrettati e determinati esclusivamente dalla capacità di alcuni adulti di considerare patologico ogni comportamento che, in realtà, sia semplicemente indesiderabile.
Ancora una volta, quindi, ci troviamo dinanzi ad una distorsione che sta nell’occhio di chi guarda.
Il reale problema non è del bambino, che potrebbe non avere alcun problema di natura psicologica o psichiatrica, ma dell’adulto che traduce la non conformità del bambino allo schema comportamentale ideale come un problema da medicalizzare immediatamente.
Figli fragili è un saggio che, a mio avviso, ogni genitore dovrebbe leggere
Non è un manuale su come crescere figli felici.
È, invece, un testo che ci spiega perché questa ossessione di crescere figli felici ci stia spingendo in un angolo in cui sottoponiamo i nostri bambini a livelli di stress ed ansia da prestazione ingestibili anche per molti adulti, trasformando poi l’ evidente insoddisfazione che manifestano in una colpa da usare contro di loro.
Ci suggerisce che il bisogno che abbiamo di medicalizzare i loro disagi e delegare agli esperti una risposta, dipenda in realtà dalla profonda insicurezza e sfiducia nella nostra capacità di genitori di guidare davvero i figli attraverso le mareggiate della vita, che possono essere tristi, dolorose e difficili da affrontare e superare anche per ragazzini sanissimi dal punto di vista psicologico e psichiatrico.
Perché il dolore, la morte, la sofferenza, la tristezza e financo la noia sono emozioni sane e importantissime nella vita di ciascuno. Non sono negatività da reprimere e tenere lontane riempiendoci l’esistenza di idoli che ci illudano di avere una vita perfetta e scintillante sempre.
Come nel film Inside Out, acclamato capolavoro Pixar, dove Tristezza svolge un ruolo fondamentale: quello di catalizzare la crescita, le riflessioni e persino il pianto.
Quella forma di liberazione meravigliosa che ci permette di non sentirci schiacciati dalle difficoltà della vita.