La povertà fa paura

Pubblicato il 21 Marzo 2016 da • Ultima revisione: 15 Agosto 2016

In Italia oggi quasi 8 milioni di persone vivono in povertà, e tra questi almeno la metà si trova in una condizione di povertà assoluta. In pratica una persona su otto, e ne deduco che ciascuno di noi conosca qualcuno in questa situazione: un vicino di casa, una famiglia i cui figli non mangiano mai in mensa o non partecipano alle gite scolastiche, un pensionato rimasto da solo, un padre separato che ha perso il lavoro, un esodato.

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Avete mai notato quanto siamo pronti a giustificarci, su questo argomento?
– Ah ma se è tanto povero perché fuma? Perché ha la televisione a 50 pollici? Perché ha la connessione ad Internet?

Come se per provare compassione (nel senso alto della parola, non nel senso dispregiativo) dovessimo chiedere alle persone di mortificarsi in tutto e per tutto, e di identificarsi con la propria povertà.

Io della vera povertà, in questi anni, ho invece notato che è invisibile (se si guarda superficialmente). Ho notato che nella nostra scuola i bambini più indigenti sono sempre vestiti meglio degli altri, curati, puliti, con le scarpine nuove. Ho notato che i genitori piuttosto di privare i figli di qualcosa, si privano di tutto il resto, anche il mangiare.
Ho notato che nella povertà c’è tanta dignità, tantissima, e che prendersi cura di sé in modo dignitoso è un atto di amore anche verso il prossimo, verso i propri figli, verso la scuola, verso i vicini… piuttosto che lasciarsi andare all’ultimo stadio, fino ad essere ipnotizzati dalla povertà e perdere ogni luce negli occhi.

Ho imparato che non dovremmo mai fare i conti in tasca agli altri.
Non possiamo sapere la vera situazione degli altri.

Noi non siamo la nostra indigenza. 
Non dovremmo identificarci con il nostro conto in banca, o con il modello della nostra auto, o con le firme che ci portiamo addosso.
Non dovremmo mai arrivare a pensare che una persona valga più di un’altra per la sua ricchezza, e al contrario che valga meno la vita di un essere umano se non ha l’essenziale per vivere.

Avete mai notato quanto è facile fare certe supposizioni?

Perché la povertà fa paura. Tutti noi abbiamo paura di restare senza soldi, senza casa, senza lavoro. E allo stesso tempo abbiamo paura di quelli che, intorno a noi, sono in difficoltà: potrebbero chiederci un prestito, potrebbero toglierci quel poco che abbiamo messo da parte, potrebbero persino crearci imbarazzo…
Ed ecco che la compassione diventa lontananza, per un meccanismo di difesa naturale, e poi diffidenza, e poi indifferenza. 

Io ho paura della povertà, moltissimo. Ne ho paura perché ho lavorato tanto, in questi anni, e l’idea di perdere tutto mi annienta. Ne ho paura perché ho una figlia di otto anni: potrò permetterle di studiare? Ne ho paura perché mai come oggi ho la sensazione che basti un piccolo momento di cedimento, per compiere una scelta sbagliata dopo l’altra, e ritrovarsi in mezzo alla strada.
La povertà è senza pietà, certe volte. Non è così?

Da quando sono ritornata a vivere in un piccolo paese della provincia torinese, lo so. Qui è tutto meno cool, sì. Qui è come il 90% dei paesi italiani: piccoli quartieri o paesi con poche migliaia di abitanti, pochi negozi, zero spazi di aggregazione. Qui la povertà non è nascosta in un quartiere lontano da casa: è in mezzo alla gente, sta gomito a gomito con le nostre vite normali.

Con un vantaggio: è più facile tirarsi su le maniche per cambiare le cose. 

Nella mia parentesi bolognese (dalla nascita di Dafne fino al ritorno a Torino) avevo smesso di fare volontariato.
Avevo i miei buoni motivi (o così pensavo): la bambina piccola, un nuovo lavoro, la fatica di ricominciare tutto daccapo, la mancanza di aiuti familiari…
E così, giorno dopo giorno, sono morta dentro. Mi sono avvizzita come una prugna secca. Mi sono rinchiusa in me stessa, mi sono sentita sempre meno utile e sempre meno importante, e mi sono persa. Mi sono svuotata e alla fine non avevo più niente da dare, niente da scrivere, più nessuna poesia, più nessuna bellezza da guardare.
A cosa serve una vita felice, se non hai più nessuno con cui condividerla?

Sono tornata me stessa da un anno a questa parte, perché mi sono ripresa quella parte di vita che avevo messo da parte, e che invece mi aveva salvata tante volte. Prima, quando da ragazzina andavo al Cottolengo, quando in oratorio facevo l’animatrice, quando in Croce Rossa mi davo da fare come Monitrice.
Tutti i periodi belli della mia vita sono sempre stati legati al volontariato. Tutti i miei amici migliori, i miei amori, le mie esperienze di vita, i miei racconti e i miei ricordi. 

Ma come diavolo ho potuto mettere da parte tutto questo?

In un anno ho fondato una nuova associazione commercianti e ho iniziato a lavorare sul rilancio locale. Non sto a raccontarvi la rava e la fava (chi vuole, può seguire tutto sul mio profilo Instagram), ma sono rinata. Sono rinata nella collaborazione con le altre associazioni e con i nostri Comuni. Sono rinata nei piccoli gesti quotidiani che abbiamo fatto per salvare alcuni posti di lavoro, o per dare beni di prima necessità a chi ne aveva bisogno, o per comprare materiali di scuola ai bambini.

Perché era facile.
Perché dare concretamente una mano è facile da morire, anche quando fa paura. 
Possiamo iniziare a regalare vestiti in buono stato, decidere di dare una piccola somma annuale in beneficenza, comprare beni alimentari quando c’è la raccolta del Banco Alimentare, donare alla scuola i quaderni non utilizzati dei nostri figli, in modo che vadano agli altri bambini. Possiamo andare a dipingere la scuola insieme agli altri genitori, od organizzare il mercatino di Natale per raccogliere fondi, o preparare le torte da vendere per la Parrocchia. Potremmo anche limitarci a non sprecare: consumare solo ciò che è necessario, evitando di buttare via il cibo che qualcuno mangerebbe.

Possiamo far valere la nostra fortuna nel modo giusto: imparando la compassione. 
Non ci vuole niente, e lo sappiamo: non saranno quei 50 euro di spesa donata al Banco Alimentare, a rovinare né la nostra vita perfetta, né le nostre vacanze, né i nostri risparmi.

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Non sarà il fustino del Dash a rovinare il nostro budget mensile, se decidiamo di contribuire anche noi ad offrire un pasto in più al Banco Alimentare. Visto che adesso Dash, per i suoi 50 anni, donerà un pasto per ogni prodotto acquistato: davvero possiamo farne a meno? Ci sono 3 milioni di pasti in ballo: davvero non possiamo contribuire in nessun modo?
Seguite l’iniziativa anche atraverso #50anniaccantoavoi

Noi non abbiamo la colpa della povertà altrui, ma possiamo prendercene cura.

Possiamo guardarci intorno e fare.
Possiamo soprattutto insegnare ai nostri figli la compassione, e ritrovare un senso di umanità e di comunità necessario a vivere nella pace.

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Noi che alla sera chiudiamo la porta a chiave, mettiamo l’antifurto e andiamo a dormire sotto lenzuola lavate di fresco.
Noi che domani andremo al lavoro – e magari ce ne lamenteremo pure.
Noi che siamo dalla parte giusta della vita, perché forse siamo stati bravi, ma soprattutto tanto tanto fortunati.



Commenti

6 Commenti per “La povertà fa paura”
  1. Silvia

    Bellissimo post, Barbara. Anche io da ragazza ho fatto volontariato, poi ho smesso con il matrimonio, il lavoro freelance, i bambini. Ho ricominciato quest’anno a gennaio, ne sentivo il bisogno. Sono in un’associazione del paese vicino al mio che distribuisce pacchi alimentari e indumenti alle persone bisognose, partecipa al Banco Alimentare e ha altre iniziative di solidarietà. Hai ragione quando dici che la povertà è vicina a noi. Ci sono molti cittadini italiani indigenti, pensionati soli, padri disoccupati e separati, famiglie sfortunate. Io ho deciso di andare a fare la mia parte, mettendomi a disposizione con molta umiltà e soprattutto SENZA GIUDICARE. So che in questo periodo è molto facile diventare poveri e anche io ne ho paura. Per ora mi reputo molto fortunata, come dici tu. “Noi che siamo dalla parte giusta della vita, perché forse siamo stati bravi, ma soprattutto tanto tanto fortunati.” Silvia

    • Mamma Felice (Mappano) - Ariete

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      Guru
      Mamma di Dafne (17 anni)

      Silvia, comprendo in tutto e per tutto. Soprattutto sulla necessità di non giudicare: perché non lo possiamo sapere, perché è un attimo davvero, perché a volte semplicemente si sbaglia e siamo umani.
      Io certi giorni mi arrabbio tanto, con la mia associazione, ma poi mi sento più carica di prima, perché so che è necessario, è bello, è per me.

  2. micaela

    Concordo sul fatto che la bravura c’entra fino ad un certo punto.
    Ci vuole tanta fortuna ed essere al posto giusto nel momento giusto.
    Speriamo di essere sempre fortunati così.
    Ciao

  3. Abito in un paese molto simile al tuo….
    mio papà, ecco lui mi ha sempre trasmesso questo valore, ha sempre aiutato gli altri, partendo dal singolo, silenziosamente, portando per esempio persone all’ospedale perchè senza auto o seguendo le vari associazioni.
    Qui da noi la povertà silenziosa è tanta, anche quella meno silenziosa…. se ti ritrovi a portare i vestiti alla caritas nel giorno in cui distribuiscono le cose e vedi chi c’è in fila ti senti quasi in colpa-
    Veramente a volte basta poco per aiutare il prossimo.
    Per me è sempre stato normale arrivare al lavoro da mamma e magari fuori c’era freddo ed era inverno e vedere lei che offriva qualcosa di caldo”ai suoi figli dice lei” ai vari vu cumprà vestiti leggerissimi, spesso portandogli vestiti di papà…
    Tutto questo io lo sto trasmettendo ad Ale…

    • Mamma Felice (Mappano) - Ariete

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      Guru
      Mamma di Dafne (17 anni)

      Grazie Sara. Per me è molto importante che i nostri figli vedano l’esempio del dono: può davvero essere una piccola cosa, ma ci DEVE essere questo esempio, se vogliamo renderli migliori.

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